Salve Ragazzi? Come state? Cosa combinate di bello ultimamente? Oggi della serie, letture pomeridiane, vi proponiamo l'incipit del romanzo "Marina" di Carlos Ruiz Zafon di cui abbiamo già fatto una recensione qui che speriamo vi sia piaciuta ^^ Ma giacchè Rosbì adora questo libro e la povera Casmi le dà retta, vi incoraggiamo ancora una volta a leggerlo...
Una volta Marina mi disse che ricordiamo solo quello che non è mai accaduto. Sarebbetrascorsa un'infinità di tempo prima che potessi comprendere quelle parole. Ma è meglio che
cominci dall'inizio, che in questo caso è la fine.
Nel maggio del 1980 sparii dal mondo per una settimana. Per sette giorni e sette notti nessuno
seppe dov'ero finito. Amici, colleghi, insegnanti e persino la polizia si lanciarono alla ricerca di
quel fuggiasco che alcuni credevano già morto, o smarrito nelle strade malfamate della città in
preda a un attacco di amnesia. Una settimana più tardi, un poliziotto in borghese credette di riconoscere quel ragazzo; la
descrizione coincideva.
Il sospetto vagava per la stazione Francia come un'anima in pena in una cattedrale
fatta di nebbia e di ferro. L'agente mi si avvicinò con aria da romanzo poliziesco. Mi chiese se
mi chiamavo Óscar Drai e se ero io il ragazzo scomparso senza lasciare tracce dal collegio in
cui studiava. Annuii senza dire una parola. Ricordo solo il riflesso della volta della stazione sulle
lenti dei suoi occhiali.
Ci sedemmo su una panchina lungo i binari. Il poliziotto si
accese con calma una sigaretta e la lasciò bruciare senza portarsela alle labbra. Mi disse che
c'era un mucchio di gente che mi stava aspettando per farmi un sacco di domande, per le quali
mi conveniva avere buone risposte. Annuii di nuovo. Mi fissò negli occhi, studiandomi. «A volte
dire la verità non è una buona idea, Óscar.» Mi allungò qualche moneta e mi invitò a chiamare il
mio tutore in collegio. Lo feci. Il poliziotto aspettò che finissi la telefonata, poi mi diede i soldi per
un taxi e mi augurò buona fortuna. Gli domandai come faceva a sapere che non sarei sparito
ancora. Mi guardò a lungo. «Scompare solo la gente che ha qualche posto dove andare»
rispose secco. Mi accompagnò fuori e mi salutò, senza neppure chiedermi dov'ero stato. Lo vidi
allontanarsi lungo il Paseo Colón. Il fumo della sigaretta, intonsa, lo seguiva come un cane
fedele.
Quel giorno il fantasma di Gaudí aveva scolpito nel
cielo di Barcellona delle nubi impossibili su uno sfondo azzurro che accecava lo sguardo. Presi
un taxi fino al collegio, dove immaginavo mi attendesse un plotone d'esecuzione. Per quasi un mese gli insegnanti e gli psicologi della scuola mi martellarono di domande per
farmi rivelare il mio segreto. Mentii a tutti, raccontando a ciascuno quello che voleva sentire o
che poteva accettare. Con il tempo, tutti si sforzarono di fingere di aver dimenticato
quell'episodio. Io seguii il loro esempio. Non ho mai rivelato a nessuno quello che era successo
davvero. Non sapevo ancora che, prima o poi, l'oceano del tempo ci restituisce i ricordi che vi
seppelliamo. Quindici anni più tardi, mi è tornato alla mente quel giorno. Ho visto quel ragazzo
girovagare nella bruma della stazione Francia e il nome di Marina si è infiammato di nuovo
come una ferita recente.
Tutti custodiamo un segreto chiuso a chiave nella soffitta dell'anima. Questo è il mio.1. Alla fine degli anni Settanta Barcellona era un'illusione di vicoli e viali in cui si poteva
viaggiare a ritroso nel tempo di trenta o quarant'anni semplicemente oltrepassando la soglia di
una portineria o di un caffè. Il tempo e la memoria, la storia e la finzione, si fondevano in quella città stregata come acquerelli sotto la pioggia. Fu lì, tra quelle strade ormai scomparse, che
cattedrali e palazzi usciti da un libro di fiabe architettarono lo scenario di questa storia. All'epoca ero un quindicenne che ammuffiva tra i muri di un collegio con il nome di un santo alle
falde della collina di Vallvidrera. In quei giorni il quartiere di Sarriá aveva ancora l'aspetto di un
paesino arenato sulle rive di una metropoli modernista. Il collegio sorgeva in cima a una strada
che si inerpicava dal Paseo de la Bonanova. La sua monumentale facciata faceva pensare più
a un castello che a una scuola. La spigolosa sagoma color argilla era un rompicapo di torri,
archi e ali tenebrose. Il collegio era circondato da una cittadella di giardini, fontane, stagni paludosi, cortili e
boschi di pini incantati. Tutt'intorno, cupi edifici ospitavano piscine velate da vapori spettrali,
palestre stregate dal silenzio e lugubri cappelle in cui le immagini dei santi sorridevano al
riflesso dei ceri. Il collegio aveva quattro piani, senza contare le due cantine e una mansarda di
clausura in cui alloggiavano i pochi sacerdoti che ancora insegnavano. Le stanze dei convittori
si affacciavano sui cavernosi corridoi del quarto piano, perennemente sprofondati nella
penombra e avvolti da echi spettrali.
Passavo i giorni a sognare a occhi aperti nelle
aule di quell'immenso castello, in attesa del miracolo che si ripeteva ogni giorno alle cinque e
venti del pomeriggio. A quella magica ora il sole rivestiva di oro liquido le alte vetrate. Suonava
la campanella che annunciava la fine delle lezioni e noi interni avevamo quasi tre ore di libertà
prima della cena nel grande refettorio. In teoria, avremmo dovuto destinare quel tempo allo
studio e alla riflessione spirituale. Non ricordo di avere mai dedicato a queste nobili attività un
solo giorno di quelli passati in collegio.
Era il
momento che preferivo. Eludendo il controllo del portiere, uscivo a esplorare la città. Presi
l'abitudine di rientrare in collegio giusto in tempo per la cena, camminando per strade e viali
mentre tutt'intorno a me calava l'oscurità. Quelle lunghe passeggiate mi davano un'inebriante
sensazione di libertà. La mia immaginazione volava al di sopra dei palazzi e toccava il cielo. Per
qualche ora le strade di Barcellona, il collegio e la lugubre stanza al quarto piano scomparivano.
Per qualche ora, con in tasca soltanto un paio di monete, mi sentivo l'individuo più fortunato
dell'universo. Spesso il mio girovagare mi portava dalle parti del deserto di Sarriá, nient'altro che una specie
di bosco sperso in terra di nessuno. La maggior parte delle antiche residenze signorili che un
tempo avevano punteggiato il tratto settentrionale del Paseo de la Bonanova era ancora in
piedi, anche se quasi in rovina. Le strade attorno al collegio tracciavano i contorni di una città
fantasma. Muri ricoperti d'edera impedivano l'accesso a giardini selvatici in cui s'innalzavano
ville monumentali. Palazzi invasi dalle erbacce e dall'abbandono, su cui la memoria sembrava
galleggiare come nebbia che non vuole dissiparsi. Parecchie di queste ville attendevano solo di
essere demolite e altrettante erano state saccheggiate nel corso degli anni. Alcune, tuttavia,
erano ancora abitate.loro occupanti erano i discendenti dimenticati di stirpi decadute. Famiglie i cui nomi
comparivano sulle prime pagine di "La Vanguardia" quando i tram suscitavano
ancora la diffidenza delle invenzioni moderne. Ostaggi del loro passato moribondo che si
rifiutavano di abbandonare le navi alla deriva. Temevano che, se avessero osato mettere piede
oltre i confini delle loro cadenti proprietà, i loro corpi si sarebbero dissolti come cenere al vento.
Come prigionieri, languivano alla luce dei candelabri. A volte, quando passavo in fretta davanti
a quelle cancellate arrugginite, mi sembrava di cogliere sguardi sospettosi dietro le imposte
scolorite. Un pomeriggio, verso la fine di settembre del 1979, decisi di avventurarmi a casaccio per uno di
quei viali disseminati di ville moderniste, del quale fino ad allora non mi ero accorto. La strada
descriveva una curva che terminava davanti a una cancellata simile a molte altre, oltre la quale
si scorgevano i resti di un vecchio giardino segnato da decenni di abbandono. Tra la
vegetazione si notava la sagoma di una villa a due piani. La sua cupa facciata si ergeva dietro
una fontana decorata con statue che il tempo aveva rivestito di muschio...
E voi di questo libro cosa ne pensate?
Casmi & Rosbì :)
Nessun commento:
Posta un commento