2.
Quando i due gemelli erano ancora piccoli e Michela ne combinava una delle sue, come lanciarsi con il girello dalle scale oppure incastrarsi un pisello su per una narice, che poi bisognava portarla al pronto soccorso per farglielo estrarre con delle pinze speciali, loro padre si rivolgeva sempre a Mattia, il primo ad aver visto la luce, e gli diceva la mamma aveva l'utero troppo piccolo per tutti e due.
«Chissà che avete combinato dentro quella pancia» diceva. «Mi sa che a forza di dare calci a tua sorella le hai procurato qualche danno serio.»
Poi rideva, anche se non c'era niente da ridere. Sollevava Michela per aria e le affondava la barba tra le guance morbide.
Mattia guardava da sotto. Rideva pure lui e lasciava che le parole del papà gli filtrassero dentro per osmosi, senza capirle davvero. Lasciava che si depositassero sul fondo dello stomaco, a formare uno strato spesso e vischioso, come il precipitato dei vini invecchiati a lungo. La risata di papà si trasformò in un sorriso tirato quando, a ventisette mesi, Michela non spiccicava ancora una parola che fosse una. Nemmeno mamma o cacca o nanna o bau. I suoi gridolini disarticolati giungevano da un posto così solitario e deserto che papà rabbrividiva ogni volta.
A cinque anni e mezzo una logopedista con gli occhiali spessi mise di fronte a Michela un parallelepipedo di compensato con le incisioni di quattro forme diverse - una stella, un cerchio, un quadrato e un triangolo - e le corrispondenti formine colorate da incastrare nei buchi. Michela la osservava meravigliata.
«Dove va la stella, Michela?» chiese la logopedista.
Michela abbassò lo sguardo sul gioco e non toccò nulla. La dottoressa le mise in mano la stella.
«Dove va questa, Michela?» domandò.
Michela guardava ovunque e da nessuna parte. Si infilò una delle cinque punte gialle in bocca e prese a morsicarla. La logopedista le tolse la mano dalla bocca e ripeté la domanda per la terza volta. «Michela, fai come ti dice la dottoressa, accidenti» ringhiò suo padre, che non ci riusciva proprio, a stare seduto dove gli avevano detto.
«Signor Balossino, la prego» disse la dottoressa conciliante. «Ai bambini bisogna concedere il loro tempo.»
Michela si prese il suo tempo. Un minuto intero. Poi emise un gemito straziante, che poteva essere tanto di gioia quanto di disperazione, e con sicurezza incastrò la stella nel posto del quadrato.
Nel caso Mattia non l'avesse già capito da solo che sua sorella aveva qualcosa di storto, ci pensarono i suoi compagni di classe a farglielo presente, ad esempio Simona Volterra, che quando in prima la maestra le disse Simona, questo mese sarai vicina di banco di Michela, si ribellò incrociando le braccia e disse io vicino a quella là non ci voglio stare. quella là, Simona, la maestra. Tutti quanti, a parte Mattia. Mattia aveva lasciato che Simona e la maestra litigassero per un po' e poi aveva detto maestra, posso restarci io vicino a Michela. Tutti quanti erano apparsi sollevati:
I due gemelli stavano al primo banco. Michela colorava per tutto il giorno disegni prestampati, andando meticolosamente fuori dai contorni e assegnando i colori a caso. La pelle dei bambini blu, il cielo rosso, gli alberi tutti gialli. Impugnava la matita come un batticarne e calcava sul foglio tanto da strapparlo una volta su tre.
Di fianco a lei Mattia imparava a leggere e scrivere. Imparava le quattro operazioni aritmetiche e fu il primo della classe a saper fare le divisioni con il riporto. La sua testa pareva un ingranaggio perfetto, nello stesso modo misterioso in cui quella di sua sorella era così difettosa. A volte Michela prendeva a dimenarsi sulla sedia e a sbattere le braccia forsennatamente, come una falena in trappola. Gli occhi le si facevano bui e la maestra restava a guardarla, più impaurita di lei, con la vaga speranza che quella ritardata potesse davvero prendere il volo, una volta o l'altra. Qualcuno nelle file dietro ridacchiava e qualcun altro gli faceva shhh.
Allora Mattia si alzava in piedi, sollevando la sedia per non farla stridere sul pavimento e andava dietro a Michela, che ruotava la testa da una parte e dall'altra e ormai sbatteva le braccia talmente veloce che lui aveva paura le si staccassero. Mattia le prendeva le mani e delicatamente le chiudeva le braccia intorno al petto.
«Ecco, non le hai più le ali» le diceva in un orecchio.
Michela ci metteva ancora qualche secondo prima di smetterla di tremare. Restava fissa su qualcosa di inesistente, per alcuni secondi, e poi tornava a torturare i suoi disegni come se nulla fosse. Mattia si sedeva di nuovo al suo posto, la testa bassa e le orecchie rosse di imbarazzo e la maestra andava avanti con la spiegazione.
In terza elementare i gemelli non erano ancora stati invitati a nessuna delle feste di compleanno dei loro compagni. La mamma se n'era accorta e aveva pensato di risolvere la situazione organizzandola loro una festa, per il compleanno dei gemelli. A tavola il signor Balossino aveva cassato la proposta, dicendo per pietà Adele, è già abbastanza penoso così. Mattia aveva tirato un respiro di sollievo e Michela aveva lasciato cadere la forchetta per la decima volta. Non se n'era più parlato.
Poi, un mattino di gennaio, Riccardo Pelotti, quello con i capelli rossi e i labbroni da babbuino, si avvicinò al banco di Mattia.
«Senti, ha detto mia madre che ci puoi venire anche tu alla mia festa di compleanno» disse d'un fiato, guardando verso la lavagna.
«E anche lei» aggiunse indicando Michela che stava lisciando accuratamente la superficie del banco, neanche fosse stata un lenzuolo. La faccia di Mattia prese a formicolare per l'emozione. Rispose grazie, ma Riccardo, levatosi il peso, si era già allontanato.
La mamma dei gemelli entrò subito in agitazione e portò tutti e due alla Benetton per vestirli a nuovo. Girarono tre negozi di giocattoli ma ogni volta Adele non era abbastanza convinta.
«Ma che gusti ha Riccardo? Gli può piacere questo?» domandava a Mattia, soppesando la confezione di un puzzle da millecinquecento pezzi.
«E io che ne so?» le rispondeva il figlio.
«È un tuo amico, insomma. Saprai bene che giochi gli piacciono.» Mattia pensò che Riccardo non era un suo amico e che non sarebbe riuscito a spiegarlo a sua madre. Si limitò a scrollare le spalle.
Alla fine Adele decise per l'astronave dei Lego, la scatola più grande e costosa del reparto.
«Mamma, è troppo» protestò il figlio.
«Ma va'. E poi voi siete in due. Non vorrete mica fare brutta figura.»
Mattia sapeva benissimo che, Lego o no, loro la brutta figura la facevano comunque. Con Michela era impossibile il contrario. Sapeva benissimo che a quella festa Riccardo li aveva invitati solo perché i suoi lo avevano obbligato. Michela gli sarebbe stata appiccicata tutto il tempo, si sarebbe rovesciata l'aranciata addosso e poi si sarebbe messa a frignare, come faceva sempre quando era stanca. Per la prima volta Mattia pensò che forse era meglio starsene a casa.
Anzi no, pensò che era meglio se Michela se ne stava a casa.
«Mamma» attaccò incerto.
Adele cercava il portafoglio nella borsa.
«Sì?»
Mattia prese fiato.
«Michela deve proprio venirci, alla festa?» Adele si immobilizzò di colpo e piantò gli occhi in quelli del figlio. La cassiera osservava la scena con sguardo indifferente e con una mano aperta sul tapis roulant, in attesa dei soldi. Michela stava mischiando i pacchetti di caramelle sull'espositore.
Le guance di Mattia si scaldarono, pronte a ricevere una sberla che non arrivò mai.
«Certo che ci viene» si limitò a dire sua madre e la questione si chiuse lì.
A casa di Riccardo potevano andarci da soli. Erano appena dieci minuti a piedi. Alle tre in punto Adele spinse i gemelli fuori dalla porta.
«Dài, che fate tardi. Ricordatevi di ringraziare i suoi genitori» disse. Poi si voltò verso Mattia.
«Fai attenzione a tua sorella. Sai che di schifezze non ne può mangiare.»
Mattia annuì. Adele li baciò entrambi sulle guance, Michela più a lungo. Le sistemò i capelli sotto il cerchietto e disse divertitevi.
Lungo la strada per la casa di Riccardo, i pensieri di Mattia erano scanditi dal fruscio dei pezzi di Lego, che si muovevano nella scatola come una piccola marea, urtando le pareti di cartone su una faccia e poi su quella opposta. Alle sue spalle, qualche metro più in là, Michela incespicava per tenere il passo, trascinando i piedi sulla poltiglia di foglie morte incollate all'asfalto. L'aria era ferma e fredda. Farà cadere tutte le patatine a terra, pensò Mattia.
Prenderà la palla e non vorrà più ridarla a nessuno.
«Ti vuoi sbrigare?» si voltò a dire alla gemella, che d'un tratto si era accovacciata in mezzo al marciapiede e con un dito torturava un verme lungo una spanna.
Michela guardò il fratello come se lo rivedesse per la prima volta dopo tanto tempo. Gli sorrise e gli corse incontro stringendo il verme tra pollice e indice.
«Che schifo che fai. Buttalo via» le ordinò Mattia, ritraendosi.
Michela guardò ancora un momento il verme e sembrò domandarsi come fosse finito tra le sue dita. Poi lo lasciò cadere e abbozzò una corsa sbilenca per raggiungere il fratello che si era già allontanato di qualche passo. Si prenderà il pallone e non vorrà più darlo a nessuno, proprio come fa a scuola, pensava Mattia.
Guardò la gemella che aveva i suoi stessi occhi, il suo stesso naso, il suo stesso colore di capelli e un cervello da buttare e per la prima volta provò un odio autentico. Le prese la mano per attraversare il corso, perché lì le macchine andavano forte. Fu mentre attraversavano che gli venne un'idea.
Lasciò la mano della sorella, coperta dal guantino di lana, e pensò che però non era giusto.
Poi, mentre costeggiavano il parco, cambiò idea un'altra volta e si convinse che non l'avrebbe mai scoperto nessuno.
È solo per qualche ora, pensò. Solo per questa volta.
Cambiò direzione bruscamente, tirandosi dietro Michela per un braccio, ed entrò nel parco. L'erba del prato era ancora umida dalla gelata della notte. Michela gli trotterellò dietro, sporcando i suoi stivaletti di scamosciato bianco nuovi nuovi nella fanghiglia.
Al parco non c'era nessuno. Con quel freddo la voglia di passeggiare sarebbe passata a chiunque. I due gemelli raggiunsero una zona alberata, attrezzata con tre tavoli di legno e una griglia per il barbecue. In prima si erano fermati a pranzare proprio lì, una mattina che le maestre li avevano portati in giro a raccogliere foglie secche, con cui poi avevano confezionato dei brutti centrotavola da regalare ai nonni per Natale. «Michi, ascoltami bene» disse Mattia. «Mi stai ascoltando?»
Con Michela bisognava sempre accertarsi che quel suo stretto canale di comunicazione fosse aperto. Mattia attese un cenno del capo della sorella.
«Bene. Allora, io adesso devo andare via per un po', okay? Però non sto via molto, solo mezz'oretta» le spiegò. Non c'era motivo per dire la verità, tanto per Michela mezz'ora o un giorno intero faceva poca differenza. La dottoressa aveva detto che lo sviluppo della sua percezione spazio-temporale si era arrestato a uno stadio pre-cosciente e Mattia aveva capito benissimo cosa voleva dire.
«Tu stai seduta qui e mi aspetti» disse alla gemella.
Michela fissava il fratello con serietà e non rispose nulla, perché non sapeva rispondere. Non diede segno di aver capito davvero, ma per un momento gli occhi le si accesero e per tutta la vita Mattia pensò a quegli occhi come alla paura.
Si allontanò di qualche passo dalla sorella, camminando all'indietro per continuare a guardarla e assicurarsi che lei non lo seguisse. Solo i gamberi camminano così, lo aveva sgridato una volta sua madre, e finisce sempre che vanno a sbattere da qualche parte.
Era a una quindicina di metri e Michela non lo guardava già più, tutta presa nel tentativo di staccare un bottone dal suo cappotto di lana. Mattia si voltò e si mise a correre, stringendo in mano il sacchetto con il regalo. Dentro la scatola più di duecento cubetti di plastica sbattevano l'uno sull'altro e sembrava volessero dirgli qualcosa.
«Ciao Mattia» lo accolse la mamma di Riccardo Pelotti aprendo la porta. «E la tua sorellina?»
«Lei aveva la febbre» mentì Mattia. «Un po'.»
«Oh, ma che peccato» disse la signora, che non sembrava dispiaciuta per niente. Si fece da parte per farlo entrare.
«Ricky, c'è il tuo amico Mattia. Vieni a salutarlo» gridò rivolta verso il corridoio.
Riccardo Pelotti comparve con una scivolata sul pavimento e la sua espressione antipatica. Si fermò per un secondo a guardare Mattia e cercò tracce della ritardata. Poi, sollevato, disse ciao.
Mattia alzò la borsa con il regalo sotto il naso della signora. «Questo dove lo metto?» domandò.
«Cos'è?» chiese Riccardo sospettoso.
«Lego.»
«Ah.»
Riccardo afferrò la borsa e sparì di nuovo in corridoio.
«Vai con lui» disse la signora spingendo Mattia. «La festa è di là.»
Il soggiorno di casa Pelotti era incorniciato da ghirlande di palloncini. Su un tavolo coperto da una tovaglia di carta rossa c'erano delle ciotole di pop-corn e patatine, una teglia di pizza secca tagliata a quadrati e una fila di bottiglie ancora chiuse di bevande gassate di vari colori. Alcuni dei compagni di Mattia erano già arrivati e stavano in piedi al centro della stanza, a presidiare il tavolo.
Mattia fece qualche passo verso gli altri e poi si fermò a un paio di metri, come un satellite che non vuole occupare troppo posto nel cielo. Nessuno fece caso a lui.
Quando la stanza fu piena di bambini, un ragazzo sulla ventina, con un naso di plastica rossa e una bombetta da pagliaccio, li fece giocare a mosca cieca e alla coda dell'asino, quel gioco in cui vieni bendato e devi attaccare la coda a un asino disegnato su un foglio. Mattia vinse il primo premio, che consisteva in una manciata extra di caramelle, ma solo perché vedeva da sotto la benda. Tutti gli gridarono buu e hai barato, mentre pieno di vergogna si infilava i dolci nella tasca. Poi, quando fuori era già buio, il ragazzo vestito da pagliaccio spense le luci, fece sedere tutti in cerchio e attaccò a raccontare una storia dell'orrore. Teneva una torcia accesa sotto il mento.
Mattia pensò che la storia non faceva davvero paura, ma la faccia illuminata in quel modo sì. La luce proiettata dal basso la rendeva tutta rossa e ne scopriva delle ombre terrorizzanti. Mattia guardò
fuori dalla finestra per non guardare più il pagliaccio e si ricordò di Michela. Non se n'era mai dimenticato veramente, ma per la prima volta la immaginò da sola in mezzo agli alberi, ad aspettarlo, mentre con i guantini bianchi si strofinava la faccia per scaldarsi un po'.
Si drizzò in piedi, proprio mentre la mamma di Riccardo faceva il suo ingresso nella stanza buia con una torta piena di candeline accese e tutti quanti si mettevano ad applaudire, un po' alla storia e un po' alla torta.
«Io devo andare» le disse, senza nemmeno darle il tempo di appoggiare la torta sul tavolo.
«Proprio adesso? C'è la torta.»
«Sì, adesso. Devo andare.» La mamma di Riccardo lo guardava da sopra le candeline. Anche la sua faccia, illuminata così, era piena di ombre minacciose. Gli altri invitati tacquero.
«Va bene» disse la donna incerta. «Ricky, accompagna il tuo amico alla porta.»
«Ma devo spegnere le candeline» protestò il festeggiato.
«Fai come ti dico» gli ordinò la madre, senza smettere di fissare Mattia.
«Cheppalle che sei, Mattia!»
Qualcuno si mise a ridere. Mattia seguì Riccardo fino all'ingresso, prese la sua giacca da sotto un mucchio di giacche e gli disse grazie e ciao. Quello non rispose nulla e gli chiuse la porta dietro, per tornare di corsa alla sua torta.
Dal cortile del condominio di Riccardo, Mattia si voltò per un attimo verso la finestra illuminata. Le grida dei suoi compagni filtravano da sotto le finestre e giungevano ovattate alle sue orecchie, come il brusio rassicurante della televisione in salotto, quando alla sera la mamma spediva lui e Michela a dormire. Il cancelletto si chiuse alle sue spalle con uno schiocco metallico e lui si mise a correre. Entrò nel parco e, dopo una decina di passi, la luce dei lampioni sulla strada non bastò più a distinguere il vialetto di ghiaia. I rami spogli degli alberi dove aveva lasciato Michela erano soltanto dei graffi un po' più scuri contro il cielo nero. Vedendoli da lontano, Mattia ebbe la certezza, limpida e inspiegabile, che sua sorella non fosse più lì.
Si fermò a pochi metri dalla panca dove Michela era seduta fino a qualche ora prima, tutta intenta a rovinare il suo cappotto. Restò fermo, in ascolto, finché il fiatone non gli fu passato, come se da un momento all'altro sua sorella dovesse sbucare da dietro un albero facendogli cucù e poi corrergli incontro, svolazzando con la sua andatura sbilenca.
Mattia chiamò Michi e si spaventò della propria voce. Lo ripeté più piano. Si avvicinò ai tavoli di legno e poggiò una mano nel punto in cui Michela era seduta. Era freddo come tutto il resto.
Si sarà stufata e sarà andata a casa, pensò. Ma se non la sa neppure, la strada. E poi non può attraversare il corso da sola.
Mattia guardò il parco, che si perdeva nel buio davanti a lui. Non sapeva nemmeno dove finiva. Pensò che non voleva proseguire e che non aveva altra scelta.
Camminava in punta di piedi per non far scricchiolare le foglie sotto le suole, girando la testa da una parte all'altra, nella speranza di scorgere Michela accucciata dietro un albero, a fare la posta a uno scarabeo o a chissacché.
Entrò nel recinto delle giostrine. Si sforzò di ricordare i colori che aveva lo scivolo nella luce della domenica pomeriggio, quando la mamma cedeva alle urla di Michela e le faceva fare un paio di giri, anche se lei per lo scivolo era già troppo grande.
Costeggiò la siepe fino ai bagni pubblici, ma non ebbe il coraggio di entrarci. Ritrovò il sentiero, che in quel punto del parco era solo una striscia sottile di terriccio segnata dall'andirivieni delle famiglie a passeggio. Lo seguì per dieci minuti buoni, finché non seppe più dov'era. Allora gli venne da piangere e da tossire insieme. «Sei proprio una stupida, Michi» disse a mezza voce. «Una stupida ritardata. Te l'ha spiegato mille volte mamma che quando ti perdi devi fermarti dove sei... Ma tu non capisci mai niente... Niente di niente.»
Risalì un lieve pendio e si trovò di fronte al fiume che tagliava in due il parco. Suo padre gli aveva detto il nome un sacco di volte, ma Mattia non riuscì a ricordarselo. L'acqua rifletteva un po' di luce presa da chissà dove e la faceva tremolare nei suoi occhi umidi.
Si avvicinò alla sponda del fiume e sentì che Michela doveva essere vicina. L'acqua le piaceva. Mamma raccontava sempre che, quando da piccoli faceva il bagno a tutti e due insieme, Michi strillava come una pazza perché non voleva uscire, anche dopo che l'acqua era diventata fredda. Una domenica papà li aveva portati sulla riva, proprio lì forse, e gli aveva insegnato a lanciare i sassi piatti per farli rimbalzare sulla superficie. Mentre gli spiegava che doveva sfruttare meglio il polso, che era quello a dare la rotazione, Michela si era sporta in avanti e aveva fatto in tempo a scivolare in acqua fino alla vita, prima che papà l'acchiappasse per un braccio. Le aveva mollato uno schiaffo e lei si era messa a frignare e poi erano tornati tutti e tre a casa, in silenzio e con i musi lunghi. L'immagine di Michela che con un ramoscello giocava a scomporre il proprio riflesso nell'acqua e poi ci scivolava dentro come un sacco di patate attraversò la testa di Mattia con la violenza di una scarica elettrica.
Si sedette a mezzo metro dalla riva, stanco. Si voltò per guardare dietro di sé e vide il buio che sarebbe durato ancora molte ore.
Prese a fissare la superficie nera e lucida del fiume. Di nuovo cercò di ricordarsene il nome, ma non ci riuscì neppure stavolta. Affondò le mani nella terra fredda. Sulla riva l'umidità la rendeva più morbida. Vi trovò un pezzo di bottiglia, il rimasuglio tagliente di qualche festeggiamento notturno. Quando se lo conficcò la prima volta nella mano non sentì male, forse non se ne accorse neppure. Poi cominciò a rigirarlo nella carne per piantarlo più a fondo, senza staccare gli occhi dall'acqua. Aspettava che da un momento all'altro Michela affiorasse alla superficie e nel frattempo si chiedeva perché certe cose stanno a galla e certe altre invece no. Allora non vi siete innamorati anche voi di questo romanzo?
Ci raccomandiamo, acquistatelo subito e fatevolo prestare, ne vale veramente la pena...
Casmi e Rosbì :)
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